Il Novecento
All'inizio del Novecento l'Emilia-Romagna era ancora una regione eminentemente agricola: nelle campagne trovava impiego il 60% della forza-lavoro e l'industrializzazione stentava a decollare, accumulando un ritardo crescente rispetto al cosiddetto "triangolo industriale" con ai vertici Milano, Torino e Genova.
A meno di cent'anni di distanza il quadro è cambiato in modo radicale, mostrando attualmente una Regione ai primi posti in Italia per quanto concerne la produttività, il reddito, la qualità dei servizi e anche la gestione del territorio. I cambiamenti sono stati di una rapidità sconcertante, soprattutto considerando che i più rilevanti si sono concentrati nell'arco di poco più di un ventennio, nel secondo dopoguerra.
L’inizio del nuovo secolo vide cambiare soprattutto il paesaggio agrario. I capitali urbani - anziché indirizzarsi verso l'industria come accadeva altrove - continuarono ad essere investiti nelle campagne, trovando impiego nel finanziamento dei lavori di bonifica e nella precoce diffusione della meccanizzazione agricola: nel 1910 il numero dei macchinari agricoli era già più che quadruplo rispetto alla media nazionale. Il largo uso di macchine non tardò però a creare problemi sociali, comprimendo ulteriormente gli spazi della manodopera bracciantile e costringendo i piccoli proprietari a gravosi indebitamenti; ebbe altresì un effetto duraturo sul paesaggio agrario favorendo le colture industriali a scapito di quelle tradizionali. Questa situazione "dinamicamente statica" interessò unicamente la pianura e le zone collinari più produttive: in montagna i cambiamenti continuarono ad essere talmente lenti da parere impercettibili, mentre una maggiore vivacità contraddistinse lo sviluppo delle zone costiere con la nascente industria turistica.
Gli anni fra le due guerre - nonostante la difficile situazione economica e sociale e l'immobilismo agrario mantenuto dalla legislazione fascista - segnarono una svolta decisiva nelle dinamiche regionali, ponendo le basi per il rapido sviluppo del dopoguerra. Gli indicatori sociali mostrano chiaramente una regione in rapida trasformazione. Il tasso di urbanizzazione, stazionario per tutto l'Ottocento, crebbe dal 30% del 1901 al 31,6% del 1921 e quindi al 37,5% del 1951. Si verificò anche una decisiva transazione dell'andamento demografico verso un assetto moderno con bassa natalità e bassa mortalità: il tasso di natalità scese per la prima volta sotto il 30 per mille nel 1922 e in seguito la propaganda fascista ("Se le culle sono vuote la nazione invecchia e perisce") non ebbe alcun effetto: 22 per mille nel 1930, 20 per mille nel 1936.
In pianura nuovi centri abitati sorsero nelle terre di bonifica; giganteschi zuccherifici marcarono l'orizzonte di queste campagne piatte, estraendo dalle barbabietole quasi la totalità dello zucchero italiano. Attorno all'asse della Via Emilia si ebbe un certo sviluppo dell'industria, soprattutto nel campo meccanico e della trasformazione alimentare. In montagna e nelle aree collinari più impervie lo squilibrio fra risorse e popolazione aveva nell'aumento dell'emigrazione (sia stagionale che permanente) l'unica valvola di sfogo, preludendo all'abbandono definitivo dei decenni successivi.
Gli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale lasciarono segni pesanti nel territorio regionale. I bombardamenti a tappeto sui nodi di comunicazione e sulle strutture produttive stravolsero la fisionomia di molte aree urbanizzate. La permanenza della Linea Gotica sul crinale appenninico e le rappresaglie nazifasciste inflissero danni gravissimi al patrimonio edilizio storico, contribuendo anche allo spopolamento precoce delle zone maggiormente colpite.
L'immediato dopoguerra vide l'inizio di un impulso allo sviluppo senza precedenti. Le esigenze della ricostruzione, gli aiuti internazionali e una lunga stagione di lotte politiche e sociali furono il motore di quel complesso fenomeno che prenderà il nome di "boom economico".
In breve l'industria manifatturiera divenne la componente economica preminente (e lo sarà fino all’inizio degli anni Ottanta), imponendosi in alcuni campi (meccanico, della ceramica, alimentare) su scala nazionale ed internazionale. Scarse le grandi imprese, la piccola e media industria trovò invece diffusione sul territorio con una miriade di fabbriche piccole e medie che divennero la solida base su cui poggiava (e in gran parte poggia ancora) il "modello emiliano" , in alcuni casi concentrandosi in aree con una forte specializzazione settoriale, come Carpi per la maglieria e Sassuolo per la ceramica. Grandi complessi petrolchimici sorsero a Ferrara e a Ravenna, avviata a divenire un importante porto moderno. Nei paraggi dell'antica capitale bizantina - ma anche attorno al polo di Cortemaggiore, iniziò inoltre la massiccia estrazione di idrocarburi, soprattutto metano; attività che portò al proliferare di pozzi e di piattaforme off-shore e all’accelerazione del lentissimo (in condizioni naturali) processo di abbassamento del suolo (subsidenza), che nelle zone più interessate ha raggiunto valori di alcuni metri in meno di quarant'anni.
La crescita delle città – particolarmente intensa lungo l’asse della Via Emilia - portò alla rapida espansione delle periferie a scapito delle campagne circostanti. Grandi infrastrutture (autostrade, viadotti, elettrodotti, ecc.) imposero la loro impronta nel paesaggio. Strade carrozzabili raggiunsero anche le valli appenniniche più sperdute facilitandone – paradossalmente - l'esodo degli abitanti. L'attività estrattiva crebbe di pari passo con quella edilizia e industriale. Il turismo rivierasco conobbe un incremento prodigioso,cingendo le spiaggie romagnole con una conurbazione lunga più di quaranta chilometri; in un secondo tempo l'industria turistica si estese anche a nord di Ravenna e sull'Appennino, costellando il crinale di impianti di risalita e di altre strutture al servizio del turismo invernale.
Nelle campagne l'impatto fu più progressivo ma non per questo meno drastico. La quota della popolazione impiegata in agricoltura, che nel 1951 era ancora del 52%, scese al 34% dieci anni dopo e all'inizio degli anni Novanta si attestò sotto il 10%. Scomparso il mondo agricolo tradizionale, ormai in disuso le conduzioni mezzadrili e in affitto, si sono imposte l'impresa familiare sorretta da strutture cooperative e le aziende di capitali.
La pianura è diventata un'efficiente e redditizia fornitrice di materie prime per l'industria agroalimentare. L’impiego di macchinari ha portato alla semplificazione del paesaggio agrario in grandi campi coltivati a cereali e colture foraggiere e industriali: barbabietole da zucchero, pomodori e, negli ultimi anni, soia, girasole e sorgo. La frutticoltura si è diffuse con impianti specializzati ad altissima produttività: piantagioni geometriche hanno sostituito quasi ovunque la tradizionale conduzione consociata in cui i filari erano inframmezzati ai campi. Vecchie attività (la bachicoltura) e colture sono scomparse: la canapa e il riso, che però negli ultimi anni si stanno riaffermando in alcune zone. Nuove piante sono state introdotte: oltre alla soia e al sorgo, l'actinidia (o Kiwi), rampicante neozelandese che viene coltivato in forme simili alla vite. I pioppi americani, ad accrescimento rapidissimo, hanno occupato le golene e le terre meno fertili con impianti che alimentano l'industria cartaria.
Nell'Appennino era nel frattempo avvenuto un cambiamento epocale con l'esodo della maggior parte della popolazione. Le durissime condizioni di vita in un ambiente aspro e impoverito - appena mitigate dai modesti proventi dei flussi migratori - non erano più accettabili nel nuovo quadro economico che richiedeva manodopera. L'Emilia-Romagna accolse solamente una quota modesta dell'emigrazione meridionale, ma assistette ad un'imponente spostamento demografico interno verso i poli di sviluppo. I centri di fondovalle meglio serviti dalla viabilità accusarono meno il fenomeno, ma i piccoli nuclei e le case sparse furono abbandonati nella quasi totalità; alcuni comuni - in Romagna, nel Parmense e nel Piacentino - videro diminuire la loro popolazione di più del 70% fra il 1951 ed il 1971. Molte zone rimasero quasi prive di popolazione residente, circostanza che favorì l'acquisizione di vasti comprensori da parte del Demanio; il miglioramento forestale e i massicci lavori di rimboschimento iniziarono a sanare un dissesto territoriale ed idrogeologico di gravità allarmante.
Il benessere quasi improvviso portò alla scoperta delle "vacanze" da parte di chi non ne aveva mai avuto la possibilità. Le conseguenze di questo che è un fenomeno socialmente positivo furono però pesanti. Molti chilometri di costa furono inglobati dal cemento; diverse montagne appenniniche furono costellate di tralicci e piloni e avvolte da cavi d'acciaio; lottizzazioni e villette cominciarono ad espandersi a macchia d'olio, mentre in molti casi le belle case antiche furono ristrutturate malamente, con largo uso di materiali che dovevano denotare la raggiunta modernità.
Il quadro qui delineato senza troppe sfumature portò non solo a pesantissime ripercussioni ambientali e paesistiche, ma anche a uno "spaesamento" di gran parte della popolazione, incapace di "digerire" in pochi anni un cambiamento ben più radicale di quello che in passato avveniva nell'arco di alcune generazioni. Trasformazioni epocali come quelle degli scorsi decenni ridefiniscono completamente i rapporti fra il paesaggio e i suoi abitanti. Come scrive Eugenio Turri in "Semiologia del paesaggio": "La rapidità delle trasformazioni, che per molti italiani ha letteralmente significato calarsi in una realtà di colpo diversa, è stata la caratteristica fondamentale del recente processo di sviluppo, […]. Le modificazioni del paesaggio in passato erano lente, erano rapportate al ritmo dell'intervento manuale, paziente, prolungato nel tempo e quindi facilmente assorbibili sia dalla natura che dagli uomini: l'elemento nuovo gradualmente si inseriva nel quadro psicologico della gente. Ma quando l'inserimento, come è accaduto negli ultimi decenni, è rapido, violento, l'assorbimento avviene con difficoltà o è rimandato alla successiva generazione."